I DISABILI, TUTTO QUELLO CHE ABBIAMO DA IMPARARE
Anche di questi dobbiamo poi distinguere fra quelli colpiti dalla nascita e quelli, invece, colpiti in secondo momento che oggi rappresentano una grossa percentuale (traumi da incidenti). Una cosa ci colpisce: nessuno fa sport per obbligo, ma per propria scelta; nessuno chiede allo sport miracolose guarigioni; tutti quelli che vi si dedicano (il 51,4 % dai 6 ai 44 anni) lo fanno per ricevere quanto tutti noi, normodotati, abbiamo ricevuto dallo sport. Il movimento, lo scarico, delle energie giovanili, lo stare assieme, il socializzare, il godere della gara, ma in più di noi, il farlo non distesi su un lettino da fisioterapista, il non sentirsi isolati, il gareggiare, sapendo accettare, molto più di noi, il riconoscimento dei propri limiti, la capacità di cercare di superare non tanto l’avversario, quanto se stessi, il vivere con altri, il trovare, anche nella loro condizione, la gioia di vivere. Qui, ritengo utile una spiegazione, forse già ben riconosciuta, e cioè la differenza tra disabilità ed handicap. La prima, si riferisce alla riduzione o alla perdita della capacità funzionale o di attività, dovuta ad una menomazione, che impedisce la normalità nelle vita quotidiana. L’handicap è la conseguenza per cui il disabile si trova ad affrontare la vita quotidiana in condizioni di svantaggio, per cui mentre la disabilità è un fatto pscico fisico, l’handicap è un fatto sociale creando molte volte la situazione che ci troviamo di fronte a disabili (particolarmente gli psichici), che non rendendosi conto della situazione, non sono degli handicappati, mentre abbiamo dei “non disabili”, i congiunti, che sono degli handicappati senza essere dei disabili. Basti pensare, infatti, a come una famiglia normale, con un disabile, si trova ad affrontare il quotidiano. In particolare le mamme, che devono dedicare tutto al figlio, trascurando anche quelle piccole gioie normali per tutti, degli incontri, delle amicizie, perché purtroppo per una questione di ignoranza queste famiglie vengono isolate. I padri, che certamente non possono affrontare serenamente la giornata lavorativa, trovando al loro rientro una situazione non serena. Ecco quindi quante sono le cose che i disabili e gli handicappati ci insegnano! Ed allora eccoci a noi come individui, e in questo caso, soprattutto come panathleti. Abbiamo visto, in breve sequenza che il loro desiderio è di essere accettati, non con pietismo, non con assistenzialismo, ma come persone con la loro dignità e le loro necessità. Il desiderio di frequentare tutti gli stessi ambienti, di potersi divertire, di non pesare troppo sui propri cari, di desiderare l’osservanza dei propri doveri, per essere non una categoria protetta, ma dei normali cittadini. La domanda: cosa possiamo fare? La risposta: molto! Non con cerimonie, non con congressi, non con esibizione dei campioni, come degli esemplari, ma contribuendo a creare la premesse per un loro inserimento nella vita. Batterci con le Istituzioni, perché spariscano le barriere architettoniche, perché considerino ogni intervento, non come spesa fine se stessa, ma come un investimento, in quanto elevando la qualità della vita del disabile e della famiglia, ci sarà un ritorno economico per le casse pubbliche. Perché il nostro pese, padre nel diritto, e che anche nel caso dei disabili ha promulgato delle ottime leggi….le applichi e non rimangano solamente scritte nella Gazzetta Ufficiale. Ma il punto base è: quanti conoscono veramente il problema. Il Panathlon Club, service di cultura sportiva, deve, dopo aver “imparato”, scendere ad insegnare, a creare una diffusa “cultura della disabilità e dell’handicap”. Come? Non di certo parlandone agli interessati, che ben conoscono tutte le problematiche relative, ma parlandone a coloro che non essendo colpiti, nulla sanno. Allora non vedremo più l’isolamento, le mamme dei sani, che non vogliono in classe il disabile, l’albergo non attrezzato che respinge, la scuola che fa mancare gli insegnanti di sostegno, e molti di questi non sono predisposti e preparati per il compito loro assegnato; non vedremo i parcheggi riservati, occupati da mezzi appartenenti a persone normodotate, a servizi igienici inservibili, e così via. I singoli Club, dovrebbero nel territorio di competenza, entrare nelle scuole e portare ai giovani la cultura di cui parlavamo, idem per i settori giovanili delle società sportive e del volontariato. I giovani sono pronti a ricevere e sono generosi nel dare. Le Istituzioni, e lo dico per esperienza personale, non possono ignorare il problema. Certo ogni Club deve misurarsi con le proprie forze: persone, tempo (ci vuole tempo!), conoscenza, introduzione presso le Istituzioni, ma sempre mirando a fare non cose episodiche, ma programmate e, soprattutto, continuative, con determinazione e umiltà, perché in questo settore, i risultati sono in fieri, non raccoglibili in breve tempo. Per fare bisogna conoscere; per conoscere bisogna imparare ed essere poi pronti a dare agli altri ciò che abbiamo appreso, parlandone con i nostri familiari, con gli amici, facendone un motivo di discussione, come la politica, l’economia, lo sport, ecc…con semplicità; perché parleremo di un fenomeno che oggi coinvolge dal 10 al 12 % della popolazione europea e che secondo le previsioni, raggiungerà il 20- 23 % nel 2030! Lo sport può molto, tutti noi ci crediamo; cerchiamo di dimostrare in questo settore quanto siano vere le nostre convinzioni. Grazie. Fabio Presca
Le paralimpiadi (o olimpiadi parallele) si svolgono per la prima volta a Roma nel 1960, coronando così il sogno di Ludwig Guttman che le aveva fortemente volute ed che aveva speso molti anni della sua vita per portarle all’affermazione. Anni addietro, ancora prima di Roma, vi furono alcuni tentativi. La prima esperienza di concorsi organizzati li troviamo nel ’48 in Inghilterra dove il neurologo Guttman – direttore del National Spinal Injuries Centre – organizzò, nella città di Stoke Mandeville, gare di tiro con l’arco, come cura per reduci di guerra, colpiti da traumi e rimasti paraplegici. Quattro anni dopo Guttman pianificò un vero torneo cui parteciparono anche atleti provenienti dall’Olanda. Si susseguirono altri tentavi sempre più di sapore olimpico. Intanto anche negli Stati Uniti qualcosa di analogo stava avvenendo. All’Università dell’Illinois il prof. Timothy J. Nugent aveva organizzato nel 1949 una serie di competizioni di pallacanestro per disabil, su sedia a rotelle. La pratica dello sport per disabili cominciò a diffondersi in tutto il mondo abbracciando discipline sempre più varie, con la conseguente nascita di varie Associazioni Sportive. E i tentativi per organizzare vere olimpiadi in questo specifico settore si susseguirono però con risultati non molto esaltanti. Finché nel 1956 i Giochi per disabili furono riconosciuti dal CIO e così nelle olimpiadi di Roma ’60 si ebbe ufficialmente la prima edizione di giochi olimpici per disabili, tenuti subito dopo le olimpiadi Ufficiali. Seguirono altre realizzazioni, seppure di noin grandi successi, tra cui forse la più importante quella di Montreal nel ’76. Intanto in nel 1976 a Ornskoldsvik in si svolsero per la prima volta le olimpiadi invernali che furono chiamate paralimpiadi a partire da Innsbruck nel 1988. Si deve arrivare comunque alle olimpiadi di Los Angeles del 1984 per avere le prime olimpiadi Ufficiali vere e proprie anche perché il movimento sportivo per disabili era notevolmente cresciuto e si era fortemente affermato. Due le sedi in cui si svolsero i Giochi olimpici del ’84: New York e Stoke Mandeville. Nella città inglese vi parteciparono circa 1.100 atleti con lesioni al midollo, mentre nella città della mela si incontrarono ben 1.800 di tutte le altre categorie. A New York i Giochi vennero aperti il 17 giugno dal Presidente Ronald Reagan di fronte a 80.000 spettatori, mentre in Inghilterra fu il principe Carlo a salutare, il 22 luglio, atleti provenienti da 41 paesi. Ne risultò un grosso successo che sancì definitivamente l’affermazione di questo movimento. Quattro anni dopo, per la prima volta, le Paralimpiadi si svolsero nella stessa città che ospitava le olimpiadi (nel rispetto di un invito ufficiale del CIO). Questo onore spettò a Seoul sede dei Giochi Olimpici dell ’88 e da quel momento, ogni quattro anni, i Giochi Paralimpici si svolgeranno sempre nella città sede dei Giochi Olimpici.
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